Post n° 15 - L’ego e le sue molteplici forme - parte 4 - Idealizzazione e delusione
Il mio amico, la mia
donna, il mio compagno, mia moglie, mio marito, i miei
figli, la mia famiglia, i miei genitori. Semplici parole
precedute da uno dei vari aggettivi possessivi utilizzati dagli esseri umani.
Nel linguaggio comune utilizzato da noi tutti, infatti, collocare l’aggettivo mio
davanti a una qualunque delle parole appena menzionate è normale e serve a
indicare il rapporto che intercorre tra noi e l’altra persona (o le altre
persone) di cui si sta parlando a un interlocutore. Anche quando presentiamo
qualcuno a un nostro conoscente usiamo dire «questa è mia moglie» oppure
«questo è mio padre». Fin qui nessun problema. Ma molti uomini e molte donne
non riescono ad astrarsi da quel mio, finendo col dargli un peso
eccessivo. Ecco che quel mio entra a far parte della già vasta serie di
convinzioni inconsce che l’essere umano crea in se stesso durante la propria
vita. Così arriva a credere (per quanto sia logico comprendere che non è
possibile) che quella determinata persona gli appartenga, ritenendola di fatto
una sua proprietà. Quindi quel mio marito, mia figlia, mia
compagna, mio padre, mio amico, vengono plasmati col tempo nei
desideri del loro ipotetico proprietario arrivando a idealizzare una persona in
base ai propri bisogni, alle proprie esigenze e alle proprie aspettative.
A molte persone, ad esempio, capita di
scegliere il proprio marito o la propria moglie per determinate caratteristiche
che contraddistinguono quello specifico individuo da migliaia di altri
individui. Ma quante volte capita che, in realtà, quelle caratteristiche non
corrispondano completamente a ciò che si era intravisto nell’altro? Quante
volte può accadere che si tratti più di nostre aspettative proiettate
sull’altro piuttosto che di veri lati del suo carattere? E, nel caso invece sia
proprio come lo abbiamo intuito, quante volte può succedere che, col passare
del tempo, l’altro cambi lentamente idee, punti di vista, atteggiamenti, tanto
da trasformare (almeno in parte) la propria personalità e, quindi, smetta di
appagarci emotivamente?
A questo punto può succedere che la persona
inconsciamente convinta di possedere l’altro giunga improvvisamente a un brusco
risveglio, segnato quasi sempre da una delusione che porterà a una delle seguenti
possibili esternazioni: «Sei mia moglie, non puoi comportarti in questo
modo», «Sei mio padre, da te mi aspetto attenzioni», «Sei mio
figlio, da te mi aspetto rispetto e obbedienza», «Sei mio amico, da te
non mi aspettavo un comportamento del genere». Esempi come questi e altri
ancora possono aiutarci a comprendere quanto questo meccanismo di possesso/bisogno
e appartenenza/dipendenza sia radicato nella grande maggioranza della
specie umana. E tutto ciò conduce quasi sempre la persona delusa a convincersi
che la causa della delusione provata sia l’atteggiamento, la scelta o il
diverso punto di vista dell’altro. Pensare che l’altro sia mio amico, mio
marito, mia madre, mia moglie, ecc, ha indotto il possessore a
instaurare un rapporto basato sul bisogno dell’altro, creando un attaccamento
tale da ferirlo profondamente nel preciso istante in cui l’altro dirà o farà
qualcosa che non ci si aspettava facesse. E il restare negativamente sorpresi
dall’inaspettata decisione e azione dell’altro è la chiara prova dell’aver
idealizzato quella persona secondo il proprio punto di vista soggettivo.
Inoltre sta a indicare anche il restare fermi nelle proprie posizioni, nei
propri schemi mentali, nei propri punti di vista rigidi e statici, ristagnando
in una vita monotona, priva di reazioni costruttive agli stimoli delle altre
vite che gli orbitano intorno, evitando spunti di riflessione ed eventuali
cambiamenti interiori indispensabili al proprio rinnovamento e al proprio
miglioramento. Del resto, si sa quanto sia più facile e comodo ritenere sempre
e comunque gli altri responsabili delle nostre sofferenze. Il cambiamento degli
altri, il loro allontanarsi da noi (per un motivo strettamente personale o per
un motivo legato a noi) o il loro pensare e agire in modo opposto al nostro,
viene letto quasi sempre come un tradimento della fiducia che avevamo riposto
in loro, seguito dalla classica sensazione di abbandono. Quando questo avviene,
forse sarebbe il caso di smettere di guardare l’altro e iniziare a osservare
noi stessi, nel tentativo di individuare il bambino dentro di noi che scalcia e
piange, riportando a galla situazioni e sensazioni irrisolte. Ma per fare ciò
occorrono anni di esercizio, di attenzione rivolta a se stessi, alle proprie
azioni e soprattutto alle proprie reazioni che, anche se in modo inconscio, sono
di fatto una nostra scelta diretta alle azioni indirizzate a noi da altre
persone, e quindi gestibili da un punto di vista emotivo e logico. Purtroppo
per molti è difficile divenire consapevoli di essere gli unici padroni del
proprio destino, della propria vita e delle proprie azioni e reazioni, tanto da
trattenerli legati al peso della loro incapacità di comprendere e accettare che
le persone al di fuori di loro, qualunque ruolo rivestano, hanno il diritto di
vivere liberamente la propria esistenza, fatta di esperienze, idee, punti di
vista e cambiamenti. Finché non giungeranno a questa semplice conclusione non
riusciranno a liberarsi dai nodi troppo stretti che la loro idea di legame ha
generato, imprigionandoli in un loop fatto di avvenimenti che si ripetono
ciclicamente, portandoli sempre alla stessa conclusione e, se percepiti sempre nella
medesima maniera, allo stesso tipo di delusione e sofferenza che non
riusciranno a gestire e superare, finendo nuovamente per etichettare l’altra persona
come responsabile della loro delusione.
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